L'ultima ora

(Il testamento di Girolamo)

 

 

Nel nome di Dio, l’anno del Signore millesettecentonovantasette, indizione nona, giorno di domenica, al 12 di febbraio nella terra di Vigo nella Pieve di Rendena, Diocesi di Trento, a casa di messero Girolamo Burrino.

 

Oggi io Girolamo Burrino di Attilio, senza costrizione alcuna e in possesso pieno di ragione e sano in grazia di Dio di tutti i sentimenti, segnatamente di vista, udito, mente e loquela ed intelletto, rinunziando ad altri testimonii, detto le mie volontà, che intendo sieno rispettate allorché piacerà a sua divina Maestà che l’anima mia venga sciolta dal corpo, soprattutto se sarà soppravvenuta morte cagionata da violenza o mistero.

La mia vita, pur dopo qualche eccesso di gioventù, e tenendo sempre per vero che esser allegri non guasta, è stata regolata dai princìpi di rettitudine, sincerità e coerenza. Ai miei figli ho inteso trasmettere mie convinzioni e fedi e ribadisco ora loro l’esortazione a tenerle per giuste e ad usare sempre proprio senno e giudizio in ogni accadimento, e a non far come femine, o vero farsi prendere da panico o cambiar opinione per schivare guaio.

Per questi meriti ritengo di aver guadagnato paradiso.

Tuttavia, anche nel caso ciò non fosse ritenuto sufficiente, e ad evitar pensieri, dispongo che il mio obito venga celebrato all’uso di un capo di famiglia e con giusta elemosina e che ogni anno nel giorno della mia morte, e nell’anniversario della mia venuta al mondo ovvero al 25 di ottobre, si debba dire una messa in suffragio della mia anima acchè sia certo che possa ascendere all’alto del cielo. E che subito dopo si offra vino all’osteria in mio nome, ma solo dopo la dipartita di Graziadeo Dosso, e buono, e fino a che ci saranno fondi.

A tale proposito, sieno consegnati alla Confraternita i 60 troni sotterrati nel broletto davanti casa come ora indicato: venticinque piedi verso mattina a partire dall’angolo di casa verso Peluco e poi dieci verso mezzodì, a un braccio e più di profondità.

Racomando che sieno utilizzati solo per l’osteria.

Alla Confraternita, in più, l’armario che sta sulla mia pleusa, per il bisogno urgente di riporre i paramenti e il catafalco nella sagrestia vecchia, in vece che sia fatto apposta, da avere così parte nell’olio della istessa Confraternita che arde per i trapassati con luce e fiamma sempre vive, e ancora due candele di cera bianca.

E proseguendo, vadano i miei prati tutti e l’animale da soma a mio figlio Martino, con l’avvertenza che si impegni al mantenere sua madre. E i suoi fratelli, ma solo se bisognosi.

La casa e tutte le mobilie di mia possessione restino a mia moglie Rachele, e quindi a Martino; al medesimo anche tutti gli atrezzi per sarto e quelli da campagna e lo schioppo e le munizioni. Il mio abito delle feste a Martino, quello da militare a Giuseppe, le calzotte e gli altri vestiti in parti uguali. La medaglia della Madonna a mia figlia Dosolina, che ha già sua dota, e il mio anello nuziale a Martino.

Per fine, tutto il resto non nominato, vada a mia moglie che, avendo dimostrato sufficiente prudenza, ne faccia parti a sua volontà, ma non lascio niente ai miei fratelli e sorelle.

E questa asserisco essere la mia ultima volontà per ragione di testamento.

 

Io G notaio in Rendena sottoscrivo a ragguaglio di firma autentica e verità di espressa volontà in presenza della mia persona.

 

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